Quando parliamo di equilibrio pensiamo automaticamente ad un qualcosa che rimane fermo, senza movimento e che questa stabilità sia data…
…da una capacità di rimanere immobili appunto. In fisica si dice che un sistema (un corpo puntiforme, un insieme di particelle, un corpo rigido,…) è in equilibrio meccanico quando la sommatoria di tutte le forze esterne e quella di tutti i momenti meccanici esterni risultano nulli.
Per la prima equazione cardinale della statica la somma della forze deve essere nulla, quindi la reazione del pavimento deve essere verticale diretta verso l’alto e della stessa intensità della forza peso del danzatore.
In questo caso i singoli pesi dei due danzatori sono ”fuori centro”, cioè cadono fuori dalla base d’appoggio. L’equilibrio è garantito dal fatto che il baricentro (o centro di gravita’ è il punto in cui si può immaginare concentrato il peso di un corpo totale), non indicato in figura, si trova sulla verticale passante per il piede della danzatrice.
L’equilibrio è un momento di stabilità tra forze opposte, che in realtà non ha nulla a che fare con la staticità o l’immobilità, ma è una situazione risultante da elementi che spesso si contrappongono fra loro e quindi di può definire un sistema dinamico a tutti gli effetti. Fisiologicamente, riusciamo a rimanere in equilibrio perché il nostro corpo attua costantemente dei meccanismi di adattamento rispetto ai dati forniti dai sensi e dalla personale capacità propriocettiva, ossia quella abilità di percepire e riconoscere la posizione del proprio corpo nello spazio e lo stato di contrazione dei propri muscoli, anche senza il supporto della vista. La propriocezione assume un’importanza fondamentale nel complesso meccanismo di controllo del movimento.
Questa abilità è quella che permette alla ballerina di volteggiare sulle punte, al pattinatore di volare sul ghiaccio e al circense di camminare il filo (in questi casi capacità opportunamente affinata con allenamenti costanti), nonché a ognuno di noi di stare in piedi, camminare o correre.
Incominciamo a sperimentare l’equilibrio sin da bambini con il passaggio dal gattonare alla posizione eretta, contrastando la forza di gravità che ci farebbe altrimenti sempre cadere. Un passaggio cruciale nella crescita dei bambini perché intuiscono che, grazie alle proprie capacità motorie ed intellettive, è possibile attuare un’opposizione fisica alla forza che li spinge verso il basso. Questa opposizione fisica è parte della storia evolutiva dell’uomo che lo ha visto come primate camminare a quattro zampe per poi sviluppare la capacità di ergersi in piedi per conquistare la posizione eretta. Dal punto di vista fisiologico questa teoria sarebbe testimoniata dalla presenza di apparati anatomici che l’uomo possiede ancora e che possono essere considerati il frutto di tale processo evolutivo (es. coccige-coda). Una vera e propria ancestrale vestigia della nostra evoluzione il coccige appunto, un osso che si trova alla fine della colonna vertebrale ma è diverso da tutte le altre 33-34 vertebre di cui siamo forniti, sembrando piuttosto un abbozzo, un prodotto di scarto. Il coccige è quindi ciò che resta della coda che avevano i nostri lontanissimi progenitori scimmieschi.
Stone balancing
L’artista Bill Dan conosce ed applica molto bene i principi della fisica legati all’equilibrio delle forze.
In questa particolare performance artistica (rock balancing), la ricerca dell’equilibrio di due o più pietre esige pazienza ed umiltà, estraneazione dallo scorrere del tempo, immersione nella natura, ascolto dei suoni e del silenzio. Il rock balancing è quindi anche una disciplina mentale che aumenta la sensibilità e la percezione dello scambio di energia tra il soggetto e la pietra da porre in equilibrio.
Equilibrio non solo fisico, ma psichico, ottenuto tramite concentrazione, espressione della personalità, intuitività, sicurezza; tutte attitudini necessarie che questo performer riesce ad esprimere nelle sue opere con un risultato di indubbio fascino.
Perché ricerchiamo l’equilibrio (non solo fisico)?
Sviluppare equilibrio può voler dire affrontare un percorso di conoscenza del proprio modo di muoversi nel mondo che può essere portato avanti per tutta la vita, sperimentando sempre nuovi modi per sfidare se stessi, le proprie abilità, il proprio essere. Una ricerca continua per sviluppare il mondo interno/esterno a sé, che può portare a prendere in considerazione e ad esaminare le proprie reazioni di fronte alle differenti situazioni che portano a non essere armonici e spesso in conflitto con se stessi e gli altri.
Si traccia in questo modo un percorso verso lo sviluppo di quella che viene definita equanimità (samatva), sapientemente descritta nel poema epico indiano Bhagavad Gìtà , inclusa nel Mahàbhàrata – un poema monumentale iniziato nel VI secolo a.C.
Il Mahàbhàrata narra il conflitto di due pretendenti al trono. Lo spunto narrativo è anche il pretesto per rappresentare il conflitto tra le forze del bene e del male. La Bhagavad Gìtà, attribuita a Vyàsa, è la sezione filosoficamente più rilevante dell’opera. Si narra dell’incontro di Arjuna, valoroso condottiero e prototipo dell’eroe, con Krishna, l’incarnazione (avatarana) del Divino in forma umana. La Gìtà si apre su un campo di battaglia, nella constatazione dell’esitazione di Ajruna: l’eroe dovrebbe combattere la gente della sua stessa stirpe, e si rifiuta di combattere a una lotta fratricida. Il guerriero è colto da uno strano sentimento: un misto di depressione, scoraggiamento e disperazione, a quel punto è incapace di gettarsi nella mischia per combattere. Ma, in quello stesso istante gli appare Krishna, o il suo alter ego, Il dio prende spunto dall’evento per spiegare ad Ajruna il significato della vita. Egli ricorda ad Ajruna che i suoi nemici sono soltanto ombre: la realtà è ben diversa da come appare. Krishna si riferisce al nucleo immutabile ed eterno di ogni essere che mai può essere distrutto. Il corpo non ha valore, è destinato a perire, è con il sé interiore (atman) che ogni individuo acquista il proprio valore e significato. Il Dio gli rivela un atteggiamento nuovo: l’operare senza alcun interesse per i risultati. Di solito ci si attacca ai frutti, cercando di raggiungere un risultato positivo, cioè il successo, e se ne teme uno negativo, cioè il fallimento. Secondo il Dio lui dovrebbe agire come un osservatore disinteressato allo spettacolo del mondo, senza preoccuparsi di ciò che potrebbe derivare dal suo operato.
Il Dio indica all’eroe l’importanza di un atteggiamento di equanimità, in base al quale non si ragioni più in termini dualistici: vita/morte, successo /fallimento, piacere/dolore,… e dove l’individuo possiede la capacità di rimanere imparziale nel giudicare gli accadimenti della vita, un osservatore distaccato dagli eventi, senza per questo essere un personaggio passivo. Questo stato d’animo completamente avulso da ogni riferimento alla dualità e alle contrapposizioni, viene definito nella Gìtà, Yoga (Karma Yoga, Ynana Yoga e Samnyasa Yoga, tre percorsi di diversa natura, ma che conducono allo stesso fine: la realizzazione del sé) (2,48).
La realizzazione dell’equanimità è un elemento fondamentale di una delle più importanti tecniche meditative che ci sono state tramandate. Con la meditazione Vipassana, (tecnica meditativa proveniente dal buddhismo Theravada* e insegnata dal Tathagatha Shakyamuni nel Discorso sui fondamenti della presenza mentale – Satipatthanasutta – ), si intende sviluppare la massima consapevolezza di tutti gli stimoli sensoriali e mentali, affinché se ne colga la reale natura e ci si incammini per tale via verso la liberazione. Il corpo e la mente sono il campo nel quale è possibile scoprire, con una visione attenta, la verità.
Tramite l’osservazione delle proprie sensazioni ed emozioni, attraverso l’accettazione e la consapevolezza che ciò che si verifica faccia parte di avvenimenti transitori e di natura effimera (impermanenza), è possibile rimanere lontano da desideri e avversioni e non reagire davanti alle afflizioni della propria mente (equanimità).
* È la più antica scuola buddhista tra quelle tuttora esistenti, originata da una delle prime e più importanti scuole nate dall’insegnamento di Siddhartha Gautama.
Quali sono le asana di equilibrio?
Tutte!
Perché?
Perché in primo luogo tutte le posizioni richiedono un equilibrio di forze, sia che siamo seduti per terra o che siamo in piedi. Quelli che possono cambiare sono fattori quali la “quantità” di area di appoggio, la posizione del baricentro rispetto alla posizione assunta, il personale sviluppo del senso dell’equilibrio, …tutti fattori che influenzano la quantità e la qualità di energia che occorre per opporsi alla famosa forza di gravità per assumere una determinata postura. Ciò non di meno ci sono asana che più specificatamente di altre mettono in gioco i suddetti fattori in maniera più avanzata di altre.
In appoggio su un piede:
Vrikasana (posizione dell’albero)
Garudasana (Garuda – il Dio aquila)
Natarajasana (la danza del Dio Shiva)
Tuladandasana (posizione del bastone in equilibrio)
In appoggio sulle mani:
Mayurasana (posizione del pavone)
Bakasana (posizione del corvo)
In appoggio su una mano e un piede:
Ardha Chandrasana (Posizione della mezza luna)
In equilibrio sul coccige:
Paripurna Navasana (Posizione della barca)
Sono asana di equilibrio tutte quelle asana che minano la nostra stabilità (anche emotiva), che mettono in discussione il nostro “senso di stabilità”, che invertono o capovolgono il nostro personale o condiviso “stato delle cose”.
Più in generale le asana di equilibrio mostrano sin da subito qual è la propria disposizione psicofisica, offrendo anche una possibile soluzione per ristabilire lavorare su questi aspetti.
Se per esempio siamo distratti perché stiamo divagando coi pensieri (quindi sbilanciati in alto con l’energia), o se siamo ansiosi e col respiro corto e aritmico, una qualunque di queste asana – soprattutto quelle su una gamba sola – ce lo fanno notare immediatamente; è infatti difficilissimo rimanere in equilibrio, poggiando su un solo piede, quando si è in uno stato ansioso o distratto.
CONCLUSIONI
Le posizioni di equilibrio funzionano come uno specchio, che riflette il nostro stato psicofisico del momento, e allo stesso tempo ci aiutano a cambiare atteggiamento. E sarà proprio la buona riuscita della pratica a farci capire che il cambiamento positivo è in atto.
Con una mente concentrata e sgombra dalle fluttuazione del pensiero, attraverso la fissità dello sguardo interno ed esterno a sé (Drishti) e con l’ausilio del respiro (che ci fa tendere/estendere naturalmente verso una direzione di forza) l’energia vitale (Prana), che fino a poco prima fluiva in modo disarmonico – o veniva assorbita dall’eccessivo pensare a vuoto,… -, viene “incanalata” nei circuiti energetici del corpo (Nadi), sbloccando vecchie tensioni e riportando uno stato di calma e armonia generale in tutto l’essere.
Contattami per imparare alcune semplici pratiche che possono aiutarti a vivere meglio in equilibrio o per un trattamento ayurvedico, sceglieremo insieme il percorso più adatto per il tuo star bene.